Il mestiere dell’archeologo

“Nei sepolcri ho trovato immensi tesori: oggetti arcaici d’oro puro”, scriveva uno dei padri dell’archeologia greca, Heinrich Schliemann, alla scoperta della cosiddetta tomba di Agamennone. “Sul momento – che sarà sembrato un’eternità a tutti coloro che mi accompagnavano – rimasi muto per lo stupore e appena Lord Carnarvon, incapace di sopportare più a lungo la suspense, chiese con ansia: “Vedi qualcosa?” Tutto quello che riuscii a rispondere fu: “Si, qualcosa di meraviglioso” “, affermava Howard Carter a proposito della scoperta della tomba del faraone Tutankhamon avvenuta nel 1922.

Ancora oggi l’idea di “archeologo” scatena nelle nostre menti lo stereotipo di Indiana Jones: novelli esploratori che partono verso l’avventura e i pericoli, alla ricerca di tesori segreti e nascosti da maledizioni. Questa idea nasce un po’ dallo spirito con cui i primi “archeologi” del 1700 e 1800 agivano e si mostravano: erano ricchi baroni, nobili con il gusto per le arti ma con anche tanta ingenuità nata dal fatto che era proprio quella l’epoca delle prime, grandiose scoperte. Partivano con schiere di “operai” verso luoghi impervi e con la speranza di trovare cose stupefacenti. Da lì nasce l’idea romantica che ancora sopravvive, nonostante la realtà effettiva sia piuttosto diversa e non altrettanto esaltante per i “non addetti ai lavori”.

 

L’archeologia è una scienza, l’archeologo è uno scienziato. Egli interroga il terreno e i reperti (e non solo) per capire cosa accadde in passato, le relazioni tra l’uomo e l’ambiente e gli avvenimenti, la semplice vita quotidiana contrapposta ai grandi eventi che vengono narrati e ricordati.
L’archeologo non parte verso l’ignoto sperando di trovare “qualcosa”: egli usa strumenti per studiare l’ambiente e capire dove sia più fruttuoso condurre scavi. Si va dalla fotografia aerea e le indagini più “scientifiche” allo studio dei documenti storici e la toponomastica (passando attraverso molte altre discipline), per poi arrivare allo scavo vero e proprio, il quale è solo una fase del complesso e sfaccettato campo che è l’archeologia. I metodi di scavo sono cambiati rispetto al passato: dai grandi sterri del 1800, nei quali l’interesse era mettere in luce le strutture murarie rinvenute e si eliminava a prescindere tutto il terreno, si arriva poi al più corretto metodo stratigrafico, delicata operazione scientifica che implica un’attenta osservazione del terreno, riconoscendone la stratificazione che si forma col passare dei secoli e con il susseguirsi delle attività umane e degli eventi naturali.
Ad ogni colpo di pala e piccone e cazzuola, l’archeologo distrugge e intacca ciò che il passato ci lascia: la terra viene rimossa seguendo e rispettando la sua stratificazione, che si può identificare dai diversi colori che assume, da ciò che è contenuto nel terreno e dal terreno stesso. Tutto viene minuziosamente descritto e registrato e fotografato, poiché nulla di ciò che è stato tolto può tornare al suo stato originario.
Alla fatica fisica (che non è poca!) si unisce il fine lavoro intellettuale: dallo studio attento dei materiali rinvenuti al cosiddetto rilievo, ovvero una documentazione digitale precisa ed accurata. Sempre più ormai la tecnologia e le scienze (in senso più ampio) collaborano con l’archeologia, integrando assieme tutti i dati raccolti per una ricostruzione quanto più realistica possibile, e soprattutto per rendere l’archeologia il più divulgativa possibile.

E nonostante quell’aura esotica e misteriosa sia soltanto fumo, resta comunque nell’archeologia un concetto presente fin dagli inizi: far parlare il passato, l’antico che sopravvive, e renderlo immortale.

(Nell’immagine: Fanciulla negli scavi di Pompei (parete rossa), Filippo Palizzi, 1870, Collezione Privata: Archivio Marino (Torino) )

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