“Mundus patet”: le celebrazioni per i defunti nell’antica Roma

“Si accontentano di poco i Mani, apprezzano di più la devozione che non i ricchi regali; non c’è avidità tra gli Dei che affollano le rive dei fiumi infernali. Basta una tegola della casa, che sia coperta da una ghirlanda, qualche chicco di grano, una manciata di sale, del pane inzuppato nel vino, qualche violetta.”
(Ovidio, Fasti)

Le festività che cadono tra la fine di ottobre e l’inizio di novembre (il tanto discusso Halloween, Ognissanti e la Commemorazione dei Defunti) hanno radici in antiche celebrazioni tipiche dell’Europa centrale ed occidentale legate sia al mondo agreste sia al mondo dell’oltretomba: tra le più celebri, c’è il capodanno celtico, detto Samhain, principale influenza nell’origine della festa di Halloween. Esistevano, tuttavia, anche nell’antica Roma dei culti legati al mondo dei defunti, di ancor più antica tradizione.

È il poeta Ovidio a fornirci una preziosa panoramica dei giorni sacri del calendario romano: diversamente dalle celebrazioni cristiane, era febbraio il mese dedicato in particolar modo al ricordo dei defunti, ed era anche l’ultimo mese dell’anno, quindi periodo di purificazione e cambiamento. 

Erano ben nove i giorni riservati a tali culti, che andavano dal 13 al 21 febbraio. L’inizio era segnato dalla festività dei Parentalia, strettamente legata all’ambito della famiglia, durante i quali si svolgevano dei banchetti in onore dei parenti defunti (parentes), mentre la conclusione coincideva con i Feralia, occasione in cui era usanza portare (in latino fero, da cui il nome della festività) offerte ai defunti, consistenti soprattutto in vino, latte, miele e pane, segno di un’origine del rito riconducibile al mondo agricolo. 

Lo scopo, oltre a quello del ricordo dei defunti, era anche quello di placare gli spiriti e mantenere l’equilibrio tra il mondo terreno e l’oltretomba, con l’aiuto di divinità denominate Mani (spiriti di defunti).

 Oltre a questo periodo di nove giorni, secondo gli antichi Romani per tre giorni all’anno il mondo dei vivi e quello dei morti comunicavano tra loro. Un particolare rito, facente parte delle tradizioni più antiche della religione romana e di origine etrusca, si svolgeva in questi giorni: fulcro era il “Mundus Cereris“, il mundus della dea Cerere, ovvero il confine tra i due mondi, fisicamente rappresentato da un pozzo circolare coperto da lastre di pietra e situato nel santuario di Cerere sull’Aventino. “Mundus patet”, il mundus è aperto: il rito prevedeva che il 24 agosto, il 5 ottobre e l’8 novembre questo pozzo venisse scoperto, mettendo così in comunicazione il regno dei vivi e quello dei morti, permettendo alle anime dei defunti di tornare.
Queste celebrazioni religiose erano talmente importanti che condizionavano anche le attività politiche e belliche: in breve, non era concesso dichiarare guerre né arruolare, così come non era consentito tenere comizi, o celebrare matrimoni. 

Il rito aveva carattere soprattutto purificatorio, propedeutico a eventi sacri che il calendario romano prevedeva: in particolare, le festività del mese di novembre preparavano alle celebrazioni dei Saturnalia e del Sol Invictus (corrispondenti al nostro periodo natalizio), legate al periodo dell’anno in cui i campi sono a riposo, in attesa che i raccolti ricomincino a crescere rigogliosi una volta superato l’inverno. Anche in questo caso si nota il carattere agricolo di questi culti, richiamando la valenza originaria di Cerere come divinità delle messi, che condiziona l’andamento delle stagioni e quindi i raccolti, influendo, di conseguenza, anche nella vita umana. 

(Nell’immagine: Sarcofago romano degli sposi con Mercurio di guardia alla porta dell’Ade, Museo dell’Opera del Duomo, Firenze)

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